30 ottobre 2008

Se la crescita si ferma sono necessarie politiche di redistribuzione del reddito

Propongo ai visitatori del mio blog un intervento dell'economista Massimo Lévêque sull'attuale crisi internazionale. Per chi non lo conoscesse propongo un suo breve curriculum.
Economista e manager, già membro del Gruppo Economisti d’Impresa, svolge la professione come consulente ed amministratore in enti e imprese, private e pubbliche. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi nel campo dell’economia industriale e regionale e della finanza pubblica. E’ stato dal 1992 al 1993 Capo di gabinetto della Presidenza della Giunta regionale e, dal 1993 al 1997, Assessore a Bilancio, Finanze e Programmazione della Regione Valle d’Aosta.
Dal 1999 nominato cultore della materia in Scienze delle Finanze alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino e dal 2004 in quella della Valle d’Aosta, dal 2006 è docente a contratto all’Università della Valle d’Aosta dove insegna Scienze delle Finanze alle facoltà di Economia e Scienze Politiche. Attualmente è amministratore delegato della SISKI e consulente, tra gli altri, dell’Associazione Valdostana Impianti a Fune, di Confindustria Valle d’Aosta e della Chambre Valdôtaine.


La straordinaria crisi che sta imperversando sui mercati finanziari del mondo intero genera alcuni interrogativi: si tratta di una crisi «solo» finanziaria e si limiterà al «solo» sistema finanziario (banche e assicurazioni)? E' «solo» di carattere congiunturale e quindi sarà
di breve durata? Impatterà «solo» sui grandi gruppi, maggiormente esposti sui mercati internazionali? Credo che le risposte a tali interrogativi siano purtroppo tre “NO” per le seguenti ragioni:
una crisi che si abbatte contemporaneamente e con tale violenza sul sistema finanziario di tutte le economie più avanzate del mondo non può non trasferirsi sull’economia nel suo insieme:
per via del ruolo determinante ormai assunto dai servizi bancari e finanziari sulle attività operative e di investimento di tutti i settori produttivi, in primis di quello industriale;
per il depauperamento provocato sui portafogli di tutti i risparmiatori (grandi e piccoli) che, con il crollo delle Borse, hanno perso ingenti quote di risparmio e, quindi, propensione al consumo, immediato e differito;

perché gli effetti della crisi impattano su sistemi produttivi (quelli Occidentali) fortemente «terziarizzati», che hanno già trasferito molte delle fasi di lavorazione delle loro imprese nei più concorrenziali Paesi Emergenti, oggi relativamente meno colpiti dalla attuale crisi, disponendo di sistemi economico-finanziari meno evoluti e perché più concentrati sulle attività «reali».

Ne segue il carattere pericolosamente «strutturale» di questa crisi, che pare anche riconducibile all’accelerato processo di redistribuzione della ricchezza e del potere economico in corso ormai da alcuni anni. Redistribuzione che provoca maggiori difficoltà alle economie più avanzate (con sensibili squilibri demografici, in grave crisi di liquidità, con forti deficit esteri e con settori pubblici indebitati) mentre paiono esservi relativamente meno esposte le economie emergenti (si pensi alle disponibilità di alcuni «fondi sovrani» asiatici o medio-orientali in grado di acquisire – agli attuali valori di borsa – i maggiori gruppi bancari statunitensi od europei).

Ciò induce a ritenere che la fase critica sia destinata a durare per un periodo ancora sufficientemente lungo e tale da provocare un effettivo e reale riassetto degli equilibri economici e politici a livello internazionale. Se la vera posta in gioco è dunque il probabile ridisegno delle gerarchie economiche e politiche mondiali, con la conseguente messa in discussione dei tradizionali paradigmi delle economie più avanzate, basati sinora più su indicatori quantitativi (la crescita del PIL) che qualitativi (la distribuzione del reddito, il benessere diffuso, la qualità della vita), la crisi in corso rischia di toccare tutti, grandi e piccoli, imprese e famiglie. In questo quadro, grave anche se per certi versi prevedibile, le economie occidentali o saranno capaci di fornire risposte in termini nuovi e «adattivi» (prendendo cioè atto del mutato scenario planetario che, tra l’altro, esse stesse hanno contribuito a determinare) o saranno destinate a subire conseguenze assai pesanti al loro interno, sia a livello economico- finanziario che politico-sociale. Solo accettando ed accompagnando, consapevolmente e responsabilmente, una redistribuzione mondiale della ricchezza (data da risorse mondiali definite a cui devono attingere quantità crescenti di popolazione) si potrà gestire «democraticamente» e con pace sociale un processo ineluttabile di «impoverimento relativo» dei Paesi più avanzati (ciò significano le previste fasi di recessione o crescita zero); e l’impatto di tale processo potrà rivelarsi tanto minore quanto più esso sarà accompagnato da una redistribuzione - interna ad ogni Paese – delle risorse a favore dei ceti medi e bassi, non in grado di sopportare ulteriori drastiche riduzioni del tenore di vita.
Nello scenario che va delineandosi, voler invece perseverare, come in passato, in politiche economiche unicamente tese a perseguire la crescita del PIL, rischia di provocare una fase di crisi addirittura più lunga, maggiormente conflittuale con i Paesi emergenti (grandi possessori di materie prime e di manodopera a basso costo) e soprattutto portatrice di un patologico ampliamento della forbice esistente tra i «pochi» facenti parte dei ceti agiati e i «tantissimi» dei ceti medi e bassi, destinati in tal caso a conoscere forme di impoverimento non sostenibili – almeno in Europa – né socialmente né sullo stesso piano macroeconomico. (Pubblicato sul Corriere della Valle d'Aosta del 23 ottobre 2008)

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